Renzo Piano
Discorso davanti a Bill Clinton ricevendo il premio Pritzker, il "Nobel per l'Architettura".
Signor Presidente, signora Clinton, signore e signora Pritzker.
E' naturalmente per me un grande onore ricevere il Premio Pritzker 1998,
e voglio innanzitutto ringraziare i membri della giuria.
Aprendo le porte del tempio a uno come me, che è cresciuto standone sempre a
una certa distanza, si sono presi una bella responsabilità.
Io, naturalmente sono felice, orgoglioso e grato di essere nominato architetto
dell'anno, qualunque cosa ciò voglia dire.
E' una cosa un po' buffa: ricorda la top dell'anno, il meglio della stagione,
il record del mese.
Non è che anche l'architetto sia a scadenza, come i medicinali: finito l'anno,
finito l'architetto? Ma che cosa è esattamente un architetto? Che cosa è l'architettura?
Sono trent'anni che faccio questo mestiere, e solo ora comincio a capire che
cosa è.
L'architettura, intanto, è un servizio, nel senso più letterale
del termine.
E' un'arte che produce cose che servono. Ma è anche un'arte socialmente pericolosa,
perché è un'arte imposta.
Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare;
ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza.
L'architettura impone un'immersione totale nella bruttezza, non dà scelta all'utente.
E questa è una responsabilità grave, anche nei confronti delle generazioni
future.
E l'architettura è un mestiere antico, forse il più antico della terra; o il
secondo se preferite: è un po' come la caccia, la pesca, la coltivazione dei
campi, l'esplorazione dei mari.
Sono le attività originarie dell'uomo, da cui discendono tutte le altre. Subito
dopo la ricerca del cibo, viene la ricerca di un riparo; a un certo punto, l'uomo
non si accontenta più dei rifugi offerti dalla natura e diventa architetto.
L'architettura, infine, è un'arte che mescola le cose: la storia e la geografia,
l'antropologia e l'ambiente, la scienza e la società.
E inevitabilmente è lo specchio di tutto ciò.
Ma forse posso spiegarmi meglio con un'immagine.
L'architettura è come un iceberg.
Non nel senso del Titanic, che se la incontri ti tira a fondo, ma nel senso
che ne vediamo solo una piccola parte: il resto è sommerso e nascosto. Nei sette
ottavi dell'iceberg che stanno sott'acqua troviamo le forze che spingono l'architettura
verso l'alto, che consentono alla punta di emergere: la società, la scienza
e l'arte.
L'architettura è società, perché non esiste senza la gente, senza le sue speranze,
le sue aspettative, le sue passioni.
E' importante ascoltare la gente.
Ed è difficile, soprattutto per un architetto. Perché c'è sempre la tentazione
di imporre il proprio progetto, il proprio modo di pensare, o peggio, il proprio
stile.
Credo invece sia necessario avere un atteggiamento leggero. Leggero, ma senza
rinunciare a quell'ostinazione che consente di testimoniare le proprie idee
e al tempo stesso di essere permeabili, di capire le idee altrui.
Non sono un boy scout e il mio richiamo allo spirito di servizio non vuole essere
moralistico.
Molto semplicemente, è un richiamo alla dignità del nostro mestiere. Senza questa
dignità rischiamo di perderci nel labirinto degli stili e delle mode.
Vivere l'architettura come servizio è certamente un condizionamento, un vincolo
alla libertà creativa: ma chi ha mai detto che la creatività deve essere libera
da ogni vincolo?
Vorrei dire di più: interpretare la società e i suoi bisogni è la ricchezza
dell'architettura.
Firenze è bella perché è l'immagine dell'Italia del Rinascimento, dei suoi artigiani,
dei suoi commercianti, dei suoi mecenati. Nelle sue vie, nelle sue piazze e
nei suoi palazzi si riflette la visione della società di Lorenzo de' Medici.
L'architettura è scienza. Per essere scienziato, l'architetto deve essere un
esploratore, e deve avere il gusto per l'avventura.
Deve affrontare la realtà, con curiosità e coraggio, per conoscerla e per cambiarla.
Deve essere "homo faber", nel senso rinascimentale del termine.
Pensate a Galileo: il cannocchiale era stato inventato per avvistare le navi,
non certo per studiare il moto delle stelle. Alle stelle pensavano i teologi.
Lui invece voleva indagare gli astri, e si mise contro la lobby più potente
del suo tempo, per farlo.
E' un'immagine che per me rappresenta molto: una formidabile lezione di curiosità per
il nuovo, di autonomia di pensiero, di coraggio di esplorare l'ignoto.
Gli architetti devono vivere sulla frontiera, e ogni tanto
attraversarla per vedere che cosa c'è dall'altra parte. Anche loro devono usare il cannocchiale
per cercare ciò che non è scritto sui sacri testi.
Brunelleschi non progettava solo edifici, ma anche le macchine per costruirli.
Racconta Antonio Manetti come avesse studiato il meccanismo dell'orologio per
applicarlo a un sistema di grandi contrappesi: con questo sistema fu sollevata
l'armatura della Cupola.
È un bellissimo esempio di come l'architettura sia anche ricerca. E ci fa riflettere
su una cosa importante: tutti coloro a cui oggi guardiamo con "reverenza" come
classici, ai loro tempi sono stati grandi innovatori, sono stati "moderni".
Hanno trovato la loro strada provando e rischiando.
Nella motivazione del premio la giuria ha fatto un riferimento a Brunelleschi che mi riempie di orgoglio e di imbarazzo nello stesso tempo. Non è un modello raggiungibile, o anche solo avvicinabile. Se devo misurarmi con qualcuno, penso piuttosto a Robinson Crusoe: un esploratore capace di muoversi in terre sconosciute.
L'architettura è un'arte. Usa una tecnica per generare un'emozione, e lo
fa con un linguaggio suo specifico, fatto di spazio, di proporzioni, di luce,
di materia (la materia per un architetto è come il suono per un musicista,
o le parole per un poeta).
Per me è molto importante un tema, quello della leggerezza (che ovviamente
non si riferisce solo alla massa fisica degli oggetti).
Al tempo dei miei primi lavori era un gioco: una sfida un po' ingenua fatta
di spazi senza forme e di strutture senza peso. In seguito, questo è diventato
il mio modo di essere architetto.
Io cerco di utilizzare in architettura elementi immateriali come la trasparenza,
la leggerezza, la vibrazione della luce. Credo che facciano parte della composizione
quanto le forme e i volumi. E come in tutte le arti ci sono momenti difficili.
Creare significa scrutare nel buio, rinunciare ai punti di riferimento, sfidare
l'ignoto. Con tenacia, con insolenza, con ostinazione. Senza questa ostinazione,
che io trovo sublime talvolta, si resta alla periferia delle cose. Finisce l'avventura
del pensiero: comincia l'accademia.
Per creare veramente l'architetto deve accettare tutte le contraddizioni del
suo mestiere: tra disciplina e libertà, tra memoria e invenzione, tra natura
e tecnologia. Non si può sfuggire: se la vita è complicata l'arte lo è ancora
di più.
L'architettura è tutto questo: società scienza e arte.
E, come l'iceberg, è il risultato di una stratificazione che dura da migliaia
di anni. Come l'iceberg, è una massa in continuo cambiamento: il ghiaccio continuamente
si scioglie e si riforma con l'acqua di oceani diversi. L'architettura è così lo
specchio della vita. Per questo io vedo in essa prima di tutto la curiosità,
l'ansia sociale, la voglia di avventura: sono queste le cose che mi hanno sempre
tenuto fuori dal tempio.
Sono nato in una famiglia di costruttori, e questo mi ha dato
un particolare rapporto con il "fare". Ho sempre amato andare in cantiere
con mio padre e vedere le cose nascere dal nulla, create dalla mano dell'uomo.
Per un bambino il cantiere è magia: oggi vedi un mucchio di sabbia e mattoni,
domani vedi un muro che sta in piedi da solo, alla fine tutto diventa un edificio
alto, solido, dove la gente può abitare. Sono un uomo fortunato: ho passato
tutta la vita a fare ciò che sognavo da bambino.
Nel 1945 avevo sette anni, e iniziava il miracolo della ricostruzione dopo
la guerra. Sappiamo che in nome del progresso e della modernità si sono dette e
fatte tante schiocchezze. Ma per la mia generazione la parola "progresso" ha
significato davvero qualcosa. Ogni anno che passava ci separava dall'orrore
della guerra e di giorno in giorno la nostra vita sembrava migliore.
Crescere in quegli anni ci ha dato una fede ostinata nel futuro.
Appartengo a una generazione di persone che ha mantenuto per tutta la vita un
approccio sperimentale, esplorando campi diversi, profanando le frontiere tra
le discipline, mescolando le carte, prendendo rischi e facendo errori. E questo
in terreni diversi. Dal teatro alla pittura, dal cinema alla letteratura e alla
musica. Senza mai parlare di cultura.
Cultura è una parola fragile, che, come un fantasma, può svanire nel momento
stesso in cui la evochi. Tutto ciò ti fa crescere istintivamente ottimista
e ti fa credere nel futuro.
È inevitabile. Ma nello stesso tempo ami il passato (essendo italiano, o meglio
europeo, non puoi fare diversamente): e quindi vivi sospeso tra la gratitudine
verso il passato e una grande passione per la sperimentazione, per l'esplorazione
del futuro.
Mi vengono in mente le parole di Francis Scott Fitzgerald
che concludono "Il
grande Gatsby" (nella bellissima traduzione in italiano di Fernanda Pivano): "Così continuiamo
a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato".
È una splendida immagine, che rappresenta la condizione umana.
Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante
tentazione.
E tuttavia il futuro è l'unico posto dove possiamo andare, se davvero dobbiamo
andare da qualche parte.